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martedì 26 luglio 2011

Chi è Gabriele Ainis?!

Mi ha trovato un giorno che pioveva da non poterne più, mentre avevo del tempo da impiegare per qualcosa di cui non ero del tutto certo, forse scrivere un racconto oppure leggere un libro. Per quello che ricordo, non ne avevo uno sottomano, o comunque non un romanzo che valesse la pena sfogliare o un saggio interessante. Al contrario, qualche giorno avanti ero appena passato in una cartoleria che vendeva splendidi quaderni con la spirale, in formato A5, il mio preferito, ed uno di essi – ne avevo acquistati tre – giaceva sul tavolo di fronte a me.
Lo notai spostando lo sguardo dalla finestrella affacciata sul giardino, reso sfocato dalla pioggia battente, all’ammasso disordinato di oggetti vari accumulato in anni di permanenza nel Residence in cui abitavo in quel periodo. Aveva la copertina rossa di foglie d’acero, una tonalità poco naturale, risultato di una manipolazione elettronica, ed era vergine da intrigare, suddiviso in tre parti eguali: la prima a righe, la seconda a quadretti la terza di fogli bianchi, con un curioso sistema di ancoraggio alla spirale che consentiva di levarli e riposizionarli dopo averli eventualmente coperti di segni. Una vera figata. Pensai che avrei potuto trasformare un giorno di pioggia in un racconto, sebbene ancora non sapessi di che tipo. Aprii il quaderno, scelsi la sezione di fogli bianchi, l’ultima, e ci trovai Gabriele che mi aspettava.
Gabriele è un nome che ho sempre amato. Mi sarebbe piaciuto chiamarmi così, mentre il mio nome non è mai stato di mio pieno gradimento, fatto non inconsueto. Il cognome, Ainis, l’ho scelto perché Gabriele era piemontese, ma definitivamente senza radici precise, senza un luogo di nascita e un anagrafe definite, salvo un’età compresa tra i cinquanta e i sessanta. Quindi un cognome raro e di origini incerte, sebbene definitivamente del Piemonte e, forse, del torinese, se non altro di origine.
Doveva anche avere qualcosa di me, ma anche essermi distante almeno il tanto sufficiente da non confondermi con lui. Dal foglio bianco mi guardava una figura alta e dinoccolata, io sono piccoletto e tarchiato, con le gambe lunghe e diritte, le mie sono corte e tendenzialmente storte, aperte verso l’esterno, il ventre incavato, probabilmente l’uccello smisurato dei magri che non hanno timore della doccia aperta quando vanno in palestra.
Un tecnico. Tecnologo, ma con la tendenza ai lavori poco comuni, qualcosa di sufficientemente indefinito da incuriosire senza spiegare troppo, un’attività lavorativa vagamente imbarazzante, da lasciare nell’indefinito. Uno così, legato a frequenti spostamenti da un cliente all’altro, aveva bisogno di un SUV, comodo e sicuro, di marca ma presumibilmente datato, forse di seconda mano. Naturalmente grigio, come l’abbigliamento tipico affetto dalla consueta schizofrenia dei personaggi pencolanti tra libera professione e lavoretti in nero, talvolta non del tutto leciti o comunque con sottofondo dubbio: grisaglia, camicia celeste e cravatta discreta, oppure jeans e Lacoste, con le comode Clarks ai piedi, naturalmente le desert boot, buone in tutte le stagioni.
Che abitasse in un Residence simile al mio mi parve subito evidente. È un ambiente che consente una vita al di fuori dei canoni condivisi dai più. Come risiedere in un porto di cui si finisce per conoscere i funzionari – il comandante della capitaneria, il capitano della Guardia di Finanza, il tenente dei carabinieri, gli impiegati degli uffici pubblici, i guardiani, i camalli – senza mai arrivare ad una vera conoscenza degli altri clienti, come si potrebbe dire, dei colleghi. Salvo poche eccezioni – io sono l’unica che abbia visto – la permanenza è di norma breve, talvolta connotata da traumi dei tipi più diversi: separazioni, litigi, malattie improvvise, lavori a termine, mai lunghi. Si arriva, si attracca, a volte per un periodo previsto fin dall’inizio, altre per un lasso di tempo del tutto indefinito, poi si sopravvive finché non arriva il momento di andar via.
Uno che si fosse scelto una vita così, o che fosse stato scelto da una vita così, poteva raccontare avvenimenti metafisici e surreali senza che si corresse il pericolo di scadere nella fantasia più totale, soprattutto se gli avessi dato la possibilità di vagare nello stato di realtà indefinita tipico degli ubriaconi.
Proprio quel giorno, inoltre, avevo notato un ospite che soggiornava al Residence con una certa frequenza, ad intervalli regolari. Non mi ero mai interessato della sua vita privata, ma mi aveva colpito il fatto che possedesse un pastore tedesco, un cane dallo sguardo profondamente malinconico che si lasciava accarezzare senza mostrare reazioni apprezzabili. Flemmatico o disinteressato alle manifestazioni di affetto. Sulle prime l’avevo battezzato Yanez, il distaccato portoghese compagno della Tigre della Malesia, poi, non so come mai, era diventato Frodo, un nome abbastanza anonimo e diffuso tra i cani. Una sicurezza.
Infine, il cielo scuro e l’umido ficcanaso di un novembre troppo piovoso avevano definitivamente definito la parte più importante del carattere di Gabriele Ainis: introverso, insicuro, asociale e fondamentalmente confuso. In questo, purtroppo, fin troppo simile a me.
C’era poca luce, la pioggia continuava imperterrita e Gabriele Ainis, l’ingegner Gabriele AInis, stava guidando per gli stretti viottoli di campagna del Canavese.

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